Dr. MAURIZIO C. DI PASQUALE​ PSICOLOGO PSICOTERAPEUTA
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Sintomo o fenomeno psicosomatico?

7/6/2016

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In questo articolo alcune considerazioni su quelli che genericamente vengono chiamati sintomi psicosomatici.
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Cenni teorici sul... "fine analisi"

6/29/2016

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In un primo momento del suo insegnamento e in particolare nel testo Varianti di una cura tipo[1] Lacan ci presenta una prima concezione di fine analisi. Si domanda infatti cosa accada all’Io al termine dell’analisi. Rigetta qui l’identificazione narcisistica “perché questa lascia il soggetto, in una beatitudine senza misura, esposto più che mai a quella figura oscena e feroce che l’analisi chiama SuperIo, e che va compreso come la beanza aperta nell’immaginario da ogni rigetto (Verwerfung) dei comandamenti della parola”.[2] L’alienazione immaginaria all’altro come fine dell’analisi è rigettata a partire dal fatto che sia quanto più errato considerare l’Io il soggetto privilegiato dell’analisi, quello a cui l’analista dovrebbe fare appello per giungere a tale operazione. Operazione che può mostrare “i suoi effetti soltanto grazie alla sua insistenza” ma che “non significa nient’altro che, escludendo il suo rapporto col soggetto da una fondazione della parola, l’analista non può comunicargli nulla che non ricavi da un sapere preconcetto o da un’intuizione immediata, cioè che non sia sottomesso all’organizzazione del proprio Io”.[3] Ma l’analista che “avesse spogliato l’immagine narcisistica del suo Io da tutte le forme del desiderio” può giungere ad un fine ideale dell’analisi dell’Io “[...] quello in cui il soggetto, ritrovate le origini del suo Io in una regressione immaginaria, ne raggiunge, attraverso la progressione rimembrante, la fine nell’analisi: cioè la soggettivazione della propria morte”.[4]
Sempre in questo testo richiamando l’attenzione sulla necessità di non scivolare in un “abuso del desiderio di guarire”[5] indica che la guarigione non coincide con la fine dell’analisi ma l’ammette “come soprappiù di beneficio della cura psicoanalitica”.[6] Mentre nei confronti del sintomo, inteso come ritorno del rimosso in una situazione di compromesso, Lacan non nega l’importanza della riduzione dei suoi effetti materiali ma considera questa come un “lavoro tecnico” dell’analisi lungi dall’essere quindi il fine ultimo.


[1] Lacan. J., Varianti della cura tipo. Scritti, vol I, Einaudi, Torino 2002.

[2] Id. p. 354

[3]  Id. p. 332

[4] Id. pp. 342-343

[5] Id. p. 318

[6] Id. p. 318
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Il lutto e la perdita

9/11/2015

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Quanti hanno sperimentato una perdita (di una persona o di un oggetto) sanno che questo genera dolore. Il dolore insito nella perdita però non è definibile in termini assoluti. Possiamo dire che quando si perde qualcosa di importante, ad esempio chi si ama, si viene a creare una situazione di vuoto e di disorientamento che pone delle problematiche in tutte le attività quotidiane. Accade di poter ascoltare qualcuno che si è appena separato presentarsi dicendo: “non riesco a farmene una ragione, entro in casa e ancora ho l’impressione che sia lì o che da un momento all’altro metterà la chiave nella serratura e entrerà dalla porta”. E questo vale anche per quanti abbiano perso loro stessi la decisione di separarsi. Il disorientamento e il vuoto però è anche una situazione che vivono coloro che sperimentano una perdita a seguito della morte della persona amata. Sebbene si tratti di due situazioni non completamente equiparabili hanno in comune il sentimento di perdita del senso della vita che si installa nell’animo di quanti abbiano affrontato situazioni simili. Si può quindi ascoltare: “so che è ora che me ne faccia una ragione ma è più forte di me, non lo posso superare”. Tale sentimento di dolore profondo e indefinibile lo possiamo ritenere del tutto naturale. In altre parole è molto comune e frequente che almeno una volta nella vita possa capitare. E questo vale anche, e non di rado, nelle coppie che vivono tutta una vita insieme e che sanno che prima o poi uno dei due morirà e lascerà l’altro solo.
Tutte le perdite si sperimentano nell’ inconscio come delle piccole morti, mi si passi l’espressione forte. Recuperare la gioia di vivere implica che si “viva” il lutto e si ristabilisca la capacità di desiderare. Quest’ultima va intesa come l’energia necessaria per affrontare le attività della vita quotidiana. Freud stesso definiva le persone normali coloro che possedevano le capacità (psichiche) di amare e lavorare. La proposta che fa la psicoanalisi è sempre l’esplorazione di tutte le vicende di perdita sperimentate dal soggetto affinché possano essere vissute come esperienze dolorose e una volta superate poter continuare a vivere senza dolore. Questo non significa che si debba soffrire anche di quelle esperienze che non ci interrogano ma spesso queste sono legate a quelle che portano il paziente a rivolgersi allo studio di un professionista. C’è da tener in conto infatti che ogni perdita lascia sempre un resto doloroso, un sedimento, che si collega al dolore inconscio della prima separazione che non è altro che la separazione dalla madre. Il lutto quando non si supera si trasforma in melanconia. In questa situazione infatti troviamo un totale rigetto del desiderio. Il desiderio è morto anch’esso tanto quanto l’oggetto è rigettato.
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Psicoterapie lunghe o brevi?  Una falsa questione

2/15/2015

 
La psicologia già dalla seconda metà del secolo scorso non è rimasta immune al corteggiamento della società post moderna. E del resto difficilmente poteva esser diversamente. Ci sarebbe da chiedersi se una disciplina della mente debba seguire a pari velocità la trasformazione dei costumi rischiando di perder di vista l’oggetto privilegiato del lavoro dello psicologo e del terapeuta. Non è mia intenzione ora inoltrarmi in una questione come questa benché abbia delle ricadute cliniche importanti. Malgrado ciò è importante al fine della mia trattazione far riferimento alla società attuale proprio per gli equivoci influssi nel nostro campo. La società di oggi esprime valori fugaci testimoniati dalla spinta continua ad un consumo smisurato, alla rapidità dell’obsolescenza degli oggetti con una tendenza all’efficienza e perfezione continua. Se a questo aggiungiamo la progressiva classificazione e normalizzazione del Soggetto abbiamo la raffigurazione di ciò che Bauman chiama società liquida. Alcune terapie che circolano in questi anni hanno rincorso questa società con questi valori adattandosi ad essi più che a considerarli come contesti all’interno del quale i pazienti vivono tanto che si può avere quasi l’impressione di una vendita della sanità eterna, mi si passi l’iperbole, prefigurata dall’eliminazione del sintomo, per sempre e velocemente. Già da qui la prima “non verità” perché se è vero che il sintomo può essere eliminato velocemente, figuriamoci che lo faceva Freud già alla fine dell’800, ci si dimentica di chiarificare che necessariamente si produrranno nuovi sintomi ed alto sarebbe il rischio di un ritorno dal terapeuta. Tutto ciò a confermare il terminabile-interminabile di cui parla Freud in uno dei suoi testi più importanti.

Prima di proseguire una doverosa premessa. Quelle che chiamo nonterapie brevi (ma vedremo anche "lunghe") fanno riferimento a tutte quelle terapie che possono rivedersi descritte in almeno tre o quattro dei punti elencati più in basso. Non si tratta quindi di una critica alle terapie brevi ma a quegli arrangiamenti della teoria che nella pratica si fanno chiamare terapie brevi e che chiamo qui nonterapie. La mia intenzione quindi è quella di marcare la differenza tra quelle che sono le terapie brevi efficaci e quelle che non lo sono se non nella loro superficialità di alcuni effetti. Affronterò qui di seguito solo alcune delle caratteristiche principali di queste terapie sui generis. Non è la durata della terapia la questione ma la sua efficacia.

Prima caratteristica: orientamento al qui e ora. Questo è un impossibile. Tutte le persone tendono a proiettarsi verso una situazione futura migliorativa ma questo affonda le proprie radici in ciò che la persona ha costruito a partire dal passato fino al proprio presente. Inoltre non dobbiamo dimenticare gli aspetti inconsci che sono sempre presenti in qualsiasi momento nella vita di un individuo. L’inconscio sappiamo parla permanentemente, rivelando la verità di ciascun soggetto e influendo in tutte le sue attività e lo verifichiamo continuamente nel qui e ora dei fallimenti, lapsus, motti di spirito etc.. Quindi questa caratteristica è accettabile solo se prende in considerazione il qui e ora in quanto tempo della seduta.

Seconda caratteristica: focus posto su ciò che bisogna cambiare più che sul perché il paziente è giunto in seduta. Questo modo di porsi rischia di essere molto pregiudizievole, dal momento che proprio a partire da ciò che va modificato nascondono le istruzioni che si devono seguire per essere un soggetto “normale” di questa società. Tutti gli ordini angosciano al posto di alleviare, è una nuova pressione che si esercita su chi già patisce. È, in definitiva, l’esercizio di un potere del “padrone” che sa ciò che deve fare per produrre individui forgiati con lo stesso stampo.


Terza caratteristica: la terapia ha una valenza didattica. Si attribuisce, con un supposto valore di apprendimento, il compito che il terapeuta disegna per il paziente. Come se il terapeuta fosse anche un docente. Un docente particolarmente illuminato tanto da sapere cosa serve al paziente a priori. Ma anche uno studente al primo anno di psicologia dovrebbe aver compreso già che trasmettere l’arte del buon vivere non sta nelle possibilità di uno psicoterapeuta. Attraverso questa pratica si tende a pensare che sia possibile creare manuali di programmazione dell’essere umano. Sono diversi gli indirizzi teorici che vedono il cervello come la scatola nera di un computer. Questo può essere utile per lavorare e realizzare studi sui processi importanti del cervello come per esempio la memoria o la cognizione, però da qui a considerare interamente l’individuo funzionante come una macchina e dimenticarsi del soggetto e del desiderio che lo abita mi sembra per lo meno un azzardo, per essere ironico, per la psicologia.

Quarta caratteristica: si dichiara l’indipendenza del paziente. Ma quale sarebbe questa indipendenza se viene fornito un modello da seguire dal terapeuta. Se non addirittura è il terapeuta stesso ad essere il modello e non solo ciò che postula. Dovremmo domandarci se si possa parlare di libertà e responsabilità quando un altro prova a modificare la nostra condotta anche se la finalità sia la dismissione dei sintomi. Libertà, responsabilità e creatività del paziente nel trovare soluzioni nuove e uniche per i problemi della sua vita sono bandite quindi è per questo che risulta evidente come nessuna di queste nonterapie cerchi l’indipendenza del paziente. La ricerca è esclusivamente di una rieducazione emozionale secondo canoni prestabiliti.


Quinta caratteristica: centratura sul sintomo e sulla sua risoluzione. È una non-verità che il sintomo si possa risolvere totalmente. Qui la partita si gioca sullo statuto da attribuire al sintomo. Ma se fosse possibile debellarlo per sempre con certezza assoluta si potrebbero seguire i consigli delle riviste evitando i costi (tempo e denaro) di una terapia. Il sintomo ha qualcosa piuttosto che resiste all’essere espresso attraverso le parole dell’individuo. Il sintomo sicuramente può essere bordato, circoscritto, in modo che permetta poter vivere. Eliminare il sintomo completamente equivale a produrne di nuovi proprio perché qualcosa resiste. Nessun essere umano è a-sintomatico davanti alle vicissitudini della proprio vita. Ogni soggetto prende posizione di fronte alla vita e proprio per questo si incorre in costi e conseguenze (alcune positive e altre no). Questo non implica che la terapia abbia un tempo indefinito. La fine dell’analisi, prendendo a prestito la prospettiva psicoanalitica, equivale a un saperci fare con il proprio sintomo a un “saper vivere”. Un sapere che non è universale ma individuale, perché è un cammino di scoperta soggettivo.

Sesta caratteristica: enfasi sul cambiamento. Se per cambiamento si intende divenire la copia del terapeuta siamo lontani dalla verità. Per un effettivo cambiamento sono richieste libertà e responsabilità che scompaiono quando si emula un ideale.

Settima caratteristica: centratura sulla risoluzione dei problemi. Risolvere problemi non significa crescere. Si possono risolvere problemi e non necessariamente affrontarne poi di nuovi problemi. Ciascun problema ha qualcosa di originale. La soluzione al problema A non si applica al problema B. Ecco che ci si trova dinnanzi a una non terapia che certo breve non sarà perché a ogni situazione identificata come problematica si dovrà per forza ricorrere al terapeuta nuovamente.

Ottava caratteristica, si lavora con la partecipazione attiva del soggetto. Di quale partecipazione attiva si può parlare se i cultori di queste non terapie fanno sfoggio di piani prefissati a secondo del disturbo diagnosticato. Inoltre, l’ossessione di dimostrare con statistiche spesso dal dubbio valore scientifico e predittivo (se non descrittivo) dimostra ancora una volta di più il tentativo di far rientrare in una normale gaussiana gli “anormali” corretti dal terapeuta. Dove sta qui la soggettività?

La critica che mi sento di fare a questo modo di fare terapia, ripeto, non è certo al numero di sedute o, in questa sede, alla loro corrente di riferimento. E non è neanche all’idea che la fine della terapia possa coincidere con l’identificazione al supposto sapere vivere del terapeuta (benché lo ritenga un errore). Piuttosto voglio puntare il dito qui su quelle  che sono dell’idea che la fine del lavoro terapeutico sia legato a un insieme di risposte condizionate in funzione dei valori che la società post-moderna impone a ciascun individuo che si rivolga a un professionista in cerca di aiuto per essere considerato un Soggetto sano.

Al contrario, le psicoterapie "a richiamo psicodinamico" sono (o dovrebbero essere) processi che vanno al di là di qualsiasi sorta di copione prestabilito e che permettano di mettere il paziente al lavoro con il suo desiderio. Le sedute devono divenire un campo fertile per ripensare la soggettività, dispiegare la creatività e farsi carico della responsabilità della propria vita. E questo non significa che debba durare anni o mesi, ne è un esempio la psicoterapia dinamica breve.

Se una supposta terapia quindi rispecchia i punti individuati sopra, beh, di terapeutico ha ben poco e a buona ragione può essere definita una non terapia.

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    Autore

    Maurizio Di Pasquale
    Psicoterapeuta a orientamento psicoanalitico
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    Dr. Calogero Maurizio Di Pasquale iscritto a Medicitalia.it | il motore di ricerca dei medici italiani
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